Parrocchia e sinodalità

Parlando di sinodalità, è inevitabile interrogarsi su quali riforme siano necessarie per poterla vivere e a quali strutture partecipative debbano essere rivolte. Una di quelle che non può sfuggire all’appello è certamente la parrocchia, che – seppur affaticata – resta una delle figure ecclesiali di riferimento. Già nella Evangelii Gaudium al n. 28 papa Francesco sosteneva che «la parrocchia, sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. Dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione».

In queste ultime righe risuonano le parole che danno il titolo al sinodo: comunione, partecipazione e missione, che non sono e non devono essere solo uno slogan ma la spina dorsale di una chiesa realmente partecipativa. Parole che però vengono accostate alla constatazione che in realtà il cammino fatto per un effettivo rinnovamento è ancora insufficiente.

La teologa Serena Noceti sostiene che sia nella prassi pastorale che nella mentalità comune c’è ancora un’idea di parrocchia legata al modello tridentino, nata per un contesto sociale sostanzialmente cattolico e per ambienti socio-religiosi omogenei, con il parroco unico pieno soggetto attivo e i laici meri destinatari del suo operato o semplici consumatori di servizi religiosi, con modalità comunicative e decisionali unidirezionali, che dall’alto scendono verso il basso. Ma oggi i cristiani sono minoranza, la società è multiculturale e segnata dal pluralismo religioso, la Chiesa è un soggetto tra i tanti che si esprimono nella sfera pubblica e la gente risulta meno disposta ad accogliere tout court una struttura piramidale e gerarchica. È dunque indispensabile ripensare la parrocchia, non semplicemente dando un’aggiustatina qua e là ma ridisegnandola completamente, promuovendo al suo interno dinamiche di compartecipazione che diano parola e autorevolezza a tutti, non facendo del clero il nucleo centrale di ogni cosa, promuovendo una comunicazione pluridirezionale, che permetta che le decisioni vengano prese insieme, pur riconoscendo la diversità dei ministeri e dei carismi. Occorre rimodellare il consiglio pastorale parrocchiale e quello per gli affari economici, dando loro una funzione non solo consultiva ma deliberativa. Bisogna garantire il carattere inclusivo della parrocchia e dare la possibilità a ciascuno di vivere in essa il riconoscimento reciproco, l’unità nella diversità e delle relazioni fondate sulla fede e sull’amore anziché una fredda erogazione di prestazioni religiose. Ancora, va ripensato il ruolo del parroco, che andrebbe sgravato da compiti che possono essere presi in carico da altre figure competenti e formate, condividendo i poteri che oggi si trovano solo nelle sue mani.

Insomma, la sinodalità non è solo questione di buona volontà, ma richiede una grande libertà di cuore e una altrettanto grande apertura di mente per mettere in discussione strutture e figure che percepiamo come intoccabili. Ma la nostra fedeltà non può essere rivolta alle strutture, bensì al Vangelo, e se le prime si rivelano inadeguate per incarnare il secondo, non dobbiamo avere timore di lasciarle.

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