Popolarità e pastoralità
Popolarità – come legame con il popolo – e pastoralità vengono diffusamente riconosciute come le caratteristiche dell’esperienza di don Vincenzo Grossi, parroco e predicatore in comunità cristiane rurali, anche fuori dai confini della sua diocesi. Caratteristiche che si riversano nella fondazione a cui ha dato vita, alla quale ne aggiunge un’altra, la sussidiarietà.
Costituiscono l’originalità che consente al vescovo Bonomelli di approvare e appoggiare l’iniziativa pensata per dare «un aiuto ai parroci, con piccoli nuclei di donne consacrate».
Donne del popolo, alla pari per abito, abitazione, naturalezza nelle relazioni, salvaguardando ad ogni costo l’essere vere religiose nel cuore.
Una popolarità con la peculiarità della pastoralità, e una pastoralità come sussidiarietà dei parroci «per il miglioramento della loro cura», con un profondo senso del servizio, della dedizione, senza riserve e distinguo, a favore delle espressioni dello zelo parrocchiale, nella formazione, nell’educazione e nell’assistenza della gioventù.
Questa della pastoralità è una intuizione originale e un po’ audace per i tempi, perché pur non trascurando la concretezza della collaborazione espressa dalla «sussidiarietà», ha un respiro più ampio della collaborazione stessa, apre alla corresponsabilità, supera i paletti dei ruoli definiti, anche quelli di genere, si esprime nei ministeri laicali, e si alimenta al principio del sacerdozio comune dei battezzati. È una esperienza pilota di una presenza attiva femminile in un campo tutto clericale, quale è appunto la pastorale. Alla pari del popolo ma in mezzo al popolo.
Don Vincenzo nel dare forma e consistenza alla sua fondazione deve cercare di mantenere costante l’oscillazione tra il loro essere donne in funzione pastorale parrocchiale e l’elemento costruttivo interiore, preliminare alla azione pastorale stessa; tra il servizio concreto dettagliato e il cuore pastorale. Don Vincenzo perché nelle Regole scrive «si mantengano in costante contatto con le giovani», se non per esprimere la continuità di una cura?
Una pastoralità più vicina all’esperienza di Gesù che ai manuali attuali di pastorale.
Nei vangeli fare il pastore non era solo un lavoro, che richiedeva del tempo e molto impegno; era un vero e proprio modo di vivere: ventiquattrore al giorno, vivendo con il gregge, accompagnandolo al pascolo, dormendo tra le pecore, prendendosi cura di quelle più deboli. Quando Gesù dice di sé di essere il «buon pastore» è per spiegare che Egli non fa qualcosa per noi, ma dà tutto, dà la vita per noi. Il suo è un cuore pastorale (cfr Ez 34,15).
Forse qui è il motivo per cui, per riassumere in una parola l’azione della Chiesa, si usa proprio il termine «pastorale». Per accompagnare, illuminare, rimotivare la nostra pastorale, il modello, è Gesù, buon Pastore.
L’intuizione di don Vincenzo è di incredibile attualità. Quella che nell’articolo viene definita come “popolarità” è un rimando alla sinodalità, a quel camminare insieme di cui oggi tanto si parla. Essere parte di un popolo in cammino, senza separatezze, superando i paletti dei ruoli è un processo da avviare, o almeno da proseguire.
La parola suora significa sorella, cioè sangue dello stesso sangue. Essere “popolari” significa allora riprendere consapevolezza di questa consanguineità, significa riconoscersi e riconoscere gli altri come membri di una stessa famiglia, in cui ogni membro è importante a prescindere da ciò che fa e dal ruolo che ricopre.
La conferenza di padre Grega del mese scorso parlava di disponibilità a lasciarsi plasmare in altre forme, di disponibilità al cambiamento. Che quella della popolarità sia una via da seguire senza indugi?