«Ho desiderato ardentemente»

L’11 e 12 febbraio u. s. si è svolto a casa Madre il convegno formativo per noi FdO sul tema della castità, sviscerato in più conferenze da diverse angolature: ecclesiologica, psicologica, storica, biblica, morale. Difficile fare una sintesi esaustiva degli interventi, ma nella diversità degli approcci sono emersi alcuni «fil rouge», alcuni punti in comune a tutti che mettono in luce come la castità per il Regno sia una realtà per la vita e non per la morte, in vista della crescita dell’amore per se stessi e per gli altri e non del suo svilimento. La castità, diceva Thimoty Radcliffe, o è un modo di amare, oppure fa male alla salute. E non è così difficile incontrare negli ambienti religiosi persone inacidite, immature, che nascondono dietro il voto di castità o la scelta del celibato la loro incapacità di relazioni autentiche, significative e profonde, donne e uomini ingabbiati in schemi mentali rigidi e asettici, che appunto fanno male alla salute loro e di chi incontrano.

È liberante la sottolineatura fatta da don Fumagalli sulla necessità di non separare l’eros dall’agape. In ambito ecclesiale, spesso la prima parola – eros – è stata guardata con sospetto e percepita come ambigua, perché incentrata sul desiderio di reciprocità e di comunione, dando così preminenza all’agape, al dono gratuito di sé, sentito come più generoso e dunque più aderente all’esempio e allo stile di Gesù. In realtà questa è un’impostazione fuorviante e tossica. Gesù stesso non ha vissuto senza cercare la comunione. È proprio quella che l’ha mosso e spinto; nel vangelo di Luca si dice che ha desiderato ardentemente mangiare la Pasqua con i suoi discepoli e discepole, i suoi compagni e compagne di vita e di strada. Il suo dono poi non è venuto meno nel momento in cui è stato abbandonato e tradito, in cui il desiderio non ha trovato la risposta attesa, ma ciò non toglie che quello che cercava era la reciprocità d’amore. Eros e agape si intrecciano, non sono separabili, non vivono uno a discapito dell’altro ma si alimentano e sostengono. La paura di dare scandalo, di mettere se stessi al centro, di “andare oltre” certi limiti porta a vivere una castità inibita, algida, fredda, che non è più il racconto di un amore ma la proiezione dei nostri problemi relazionali e dei nostri timori. È abbastanza scontato pensare che l’eros senza agape non è vero amore ma mero possesso dell’altro per il proprio bisogno. Ci è più difficile immaginare che l’assenza di eros non è in automatico un segno della presenza dell’agape, ma può essere al contrario una patologia dell’amore, un distaccato «fare il bene» senza però «voler bene», un amore a senso unico caratterizzato dall’assenza di desiderio e dunque di disponibilità a ricevere il dono altrui, convinto di non aver bisogno di nulla, tutto proteso a dare. Niente di tutto ciò ci chiede il Vangelo, al contrario! Il Vangelo rende umani, prossimi, caldi e appassionati, non ci rende aridi calcolatori o freddi computer programmati unidirezionalmente.  Lì dove manca la familiarità con l’umano, sottolineava don Donadio, non c’è castità, perché non c’è amore. È urgente allora recuperare questa familiarità, ritrovare la forza umanizzante vissuta e incarnata da Gesù per essere anche noi donne e uomini mossi dal desiderio appassionato di comunione che si apre al dono di sé, leali e trasparenti con noi stessi e con chi incrociamo sulle strade della nostra vita.

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