Identità o rilevanza?

Il tema dell’ultima udienza papale di mercoledì, 22 marzo u.sc., nel solco della passione per l’evangelizzazione, è stata la testimonianza del credente. Francesco esordisce chiarendo che «l’evangelizzazione è più che una semplice trasmissione dottrinale e morale. Non è trasmettere un’ideologia o una “dottrina” su Dio, no. È trasmettere Dio che si fa vita in me: questo è testimonianza».

Negli ambienti ecclesiali e nelle nostre parrocchie non è raro imbattersi in espressioni che sottolineano il nostro dovere di essere testimoni. Ovviamente non siamo qui a dire il contrario, ma è importante intendersi bene sul suo significato. Essere testimoni non vuol dire sforzarsi di fare il bene per dimostrare qualcosa o per fedeltà a una norma. «Una persona è credibile se ha armonia tra quello che crede e quello che vive. Tanti cristiani soltanto dicono di credere, ma vivono di un’altra cosa. E questa è ipocrisia». Non significa rinchiudersi in una torre di granitiche certezze e da lì fare di tutto per tirar dentro più persone possibili. Ancor meno significa non avere più domande irrisolte e dare risposte da manuale a chi incontriamo. «Dobbiamo essere consapevoli che destinatari dell’evangelizzazione non sono soltanto gli altri, coloro che professano altre fedi o che non ne professano, ma anche noi stessi, credenti in Cristo e membra attive del Popolo di Dio. Siamo chiamati ad accettare il rischio anche destabilizzante della ricerca, confidando pienamente nell’azione dello Spirito Santo che opera in ciascuno di noi, spingendoci ad andare sempre oltre: oltre i nostri confini, oltre le nostre barriere, oltre i nostri limiti, di qualsiasi genere».

L’indimenticato biblista Silvano Fausti scriveva che i cristiani non devono cercare la rilevanza, ma l’identità. La candela non si preoccupa di illuminare: semplicemente brucia e, bruciando, illumina. L’identità non può restare nascosta, anche se non fa nulla per farsi vedere. Chi cerca la rilevanza invece dell’identità è come la rana che si gonfia per diventare bue. Nessuno dà ciò che non ha: ciò che sei parla più forte di ciò che dici.

«Se la Chiesa non evangelizza sé stessa – prosegue il pontefice – rimane un pezzo da museo. Invece, quello che la aggiorna continuamente è l’evangelizzazione di sé stessa. È chiamata a percorrere un cammino esigente, un cammino di conversione, di rinnovamento. Ciò comporta anche la capacità di cambiare i modi di comprendere e vivere la sua presenza evangelizzatrice nella storia, evitando di rifugiarsi nelle zone protette dalla logica del si è sempre fatto così. Sono dei rifugi che ammalano la Chiesa».

In questo cambiamento d’epoca siamo chiamati a imprimere una profonda trasformazione non solo alle nostre strutture ecclesiali, ma anche alla dimensione esistenziale e spirituale della nostra fede. La Chiesa non può non interrogarsi su quale sarà il cristianesimo del futuro e quale forma assumerà la Chiesa di domani. E certamente «dev’essere una Chiesa che incontra dialogicamente il mondo contemporaneo, che tesse relazioni fraterne, che genera spazi di incontro, mettendo in atto buone pratiche di ospitalità, di accoglienza, di riconoscimento e integrazione dell’altro e dell’alterità, e che si prende cura della casa comune che è il creato».

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