Da Saulo a Paolo. Da persecutore ad apostolo (3)

Salvato…  per grazia

Così «perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 13-14). Non c’è niente di più crudele del fanatismo religioso; l’uomo non è mai tanto cattivo come quando pensa di far questo per glorificare Dio.

Seppi che a Damasco le cose funzionavano alla grande per gli appartenenti a quella Via. Nessuno metteva freni al loro proliferare. Decisi allora di presentarmi al sommo sacerdote per chiedergli lettere per le sinagoghe di quella città, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avessi trovato (At 9, 1-2). Fu durante quel viaggio che il mio subbuglio iniziato con l’incontro con Stefano deflagrò definitivamente e la corazza della mia supposta buona coscienza si sgretolò. Arrivò finalmente quella spaccatura del cuore che da solo non avrei mai potuto realizzare.

«Mentre stavo andando a Damasco, verso mezzogiorno vidi sulla strada una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”» (At 26, 12-14). Fu come un cataclisma dentro di me, una vera e propria caduta, non tanto da cavallo, ma una frana di tutto quello che prima aveva costituito il solido e incrollabile fondamento della mia vita. Tentai di alzarmi da terra ma, aperti gli occhi, non vedevo nulla. Ero completamente cieco! Tutto quello che prima credevo di vedere, ora non lo vedevo più. Tutte le mie certezze, la mia convinzione di essere nel giusto davanti a Dio, la mia tracotante sicurezza…  era tutto sparito! E cominciavo a intravedere altre cose, che però erano il contrario di quello che avevo sempre pensato e per cui avevo combattuto! Chi era che mi parlava? Come conosceva il mio nome? E poi… io stavo perseguitando i cristiani, da dove dunque quelle parole: «Perché perseguiti me?». Con le poche forze che mi erano rimaste, balbettai una domanda: «Chi sei, o Signore?». Cominciavo ad avvertire con timore che ciò che mi animava con tanta passione forse era completamente sbagliato. «Io sono Gesù, che tu perseguiti» (At 9,15). Come sarebbe a dire, Gesù? Io ho esultato per la morte di Stefano, che si proclamava suo discepolo, ho messo in piedi una persecuzione cruenta contro chi si dichiarava seguace di quel ciarlatano, ho lottato con tutte le mie forze contro di loro, ma Gesù non l’ho mai visto né incontrato. Era morto e stecchito da un pezzo, come avrei potuto perseguitare un cadavere? Eppure quelle parole rimbombavano dentro di me: sono Gesù, che tu perseguiti! Unito a questa specie di mantra, tornavano davanti ai miei occhi accecati le immagini del viso luminoso di Stefano, della dignità tutta d’un pezzo degli uomini che sbattevo in galera, del coraggio delle donne che non si piegavano ai miei soprusi, della forza mite ma risoluta di chi ama il suo nemico. L’uccisione di Stefano mi stava mettendo mio malgrado faccia a faccia con la morte di Gesù. Il suo sacrificio mi aveva conquistato a mia insaputa; la morte del giusto stava dando vita al persecutore, a me. Era come se Gesù tramite lui mi avesse perdonato e amato in anticipo, senza condizioni. In quella gente che stavo perseguitando e nel loro modo di recepire le mie persecuzioni, in tutto questo, senza saperlo, stavo incontrando il volto del Dio di Gesù, la sua gratuità, il suo amore libero da ogni calcolo. Ero ormai un uomo completamente disorientato.

Abituato a comandare, a dire agli altri quello che dovevano fare, mi ritrovai d’un tratto come un bambino che dev’essere preso per mano per fare anche il più piccolo passo. Ero sconvolto: stavo perpetrando i mali peggiori a persone innocenti per toglierle di mezzo, e il perseguitato, invece di reagire con la stessa ferocia, mi si proponeva davanti come un interlocutore che ha tutta l’intenzione di continuare un discorso, senza rancore. Comprendevo con amarezza che non ero il detentore assoluto della verità, anzi di esserne ben lontano. Mi riscoprivo smarrito, fragile, «piccolo». Stavo prendendo coscienza che nonostante tutto il mio zelo, stavo combattendo non per Dio ma contro Dio una battaglia perduta in partenza.

Sentii di nuovo una voce. Forse era uno degli uomini che viaggiava con me, ma non posso dirlo con certezza, vista la mia confusione: «Ma tu alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9, 6). Parole che scendevano dentro di me come un balsamo, quasi che qualcuno mi stesse dicendo con infinita misericordia: «Non preoccuparti, ti ho perdonato tutto. Non proseguire a stare così bocconi per terra, umiliato, in attesa che io ti schiacci come un verme. Alzati, risuscita!». Nel mio caos totale, tornava alla mia memoria la parola del profeta Ezechiele: «Io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva» (Ez 33,11). L’empio ero proprio io.

La presa di coscienza di tutto il male che avevo fatto mi stava precipitando addosso come una valanga. Ma con mio grande stupore, non me ne sentivo schiacciato. Era come se dentro di me maturasse la libertà di riconoscermi colpevole, senza essere oppresso dal rimorso e dal senso di colpa. Non era certo menefreghismo, anzi, il dolore era acuto e profondo e mi vergognavo di quel che avevo combinato. Ma stavo facendo l’esperienza del perdono, dell’essere amato non perché giusto e fedele ma nella totale assenza di merito, gratis. «Voi infatti siete stati salvati per grazia, mediante la fede, e ciò non viene da voi, è il dono di Dio» (Ef 2,8).

Stavo come uno che ha ricevuto un pugno nello stomaco. Mi rendevo conto che il mio modo di vivere fino a quel momento era fasullo. Avevo costruito la casa della mia vita sulla sabbia e ora tutto stava andando in frantumi. Quell’edificio in cemento armato a cui ho lavorato per anni con estrema cura, poggiava sul nulla e a un certo punto si è messo a funzionare solo come uno scudo contro me stesso, contro gli altri e contro la grazia di Dio. Il crollo che stavo vivendo era dolorosissimo, ma in qualche modo gravido di speranza. Dovevo solo resistere alla tentazione di ricostruire ciò che la grazia di Dio stava demolendo. La tentazione di montare qualche impalcatura davanti alla facciata pericolante era in agguato.

Mi portarono a Damasco. Lì, con mia enorme sorpresa, venni accolto proprio da un membro di quella chiesa che volevo annientare. Si chiamava Anania, e fu anche grazie a lui che la mia capitolazione giunse a termine. Conosceva la mia fama di persecutore e sapeva le intenzioni che animavano il mio viaggio. Eppure mi aprì le porte della sua casa e mi offrì le sue cure per recuperare la vista. Ero veramente senza parole davanti a tanta bontà. Per tre giorni e tre notti rimasi cieco. Tre giorni in cui imparai a dimorare accanto alle mie rovine, seduto in mezzo ai detriti del mio fallimento, ma senza amarezza, riconciliandomi con essi.

Senza Anania sarei ancora a leccare le mie ferite. Invece, grazie a lui mi sentivo risorgere dall’angoscia di una vita che avevo capito essere fallita ed ero immerso – battezzato – nell’amore di Dio. Mi sentivo amato, amato come mai prima, accolto e custodito. Salvato.

Saulo il persecutore non c’è più. Ora sono Paolo, l’apostolo delle genti. Testimone che «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). 

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