Ricostruire ponti distrutti. Breve racconto di un viaggio in Bosnia

14 settembre 2021. Driiin, suona il telefono.

«Ciao suor Federica, sono Idalia della Caritas di Prato. Ci sarebbe l’opportunità per un viaggio in Bosnia, una sorta di sopralluogo per verificare la possibilità di organizzare qualche esperienza estiva per i giovani. Vuoi andare? Sei disposta?»

«Che bello, ci penso, ne parlo in comunità e ti faccio sapere».

«Scusa se non te l’ho detto prima, ma bisogna dare risposta entro domani. Il 5 ottobre è prevista la partenza».

«Entro domani???? Scherzi?»

È iniziata così, senza preavviso, la mia piccola esperienza in terra bosniaca, zona tristemente nota per la guerra che ha vissuto dal 1992 al 1995, i tre anni che hanno riscritto la geografia politica della ormai ex Jugoslavia.  Assieme a me c’erano i rappresentanti delle Caritas di alcune diocesi toscane e gli incaricati regionali degli Scout Agesci.

Ciò che certamente fa più pensare entrando in contatto con quella realtà, è la difficile convivenza di tante etnie su uno stesso territorio. La guerra è finita, ma la pace non c’è ancora.

La multiculturalità è di casa a Sarajevo, non per nulla detta «la Gerusalemme d’Europa»: nel giro di poche centinaia di metri si trovano infatti la moschea centrale, la cattedrale cattolica, la sinagoga ebrea e la chiesa ortodossa. L’architettura arabeggiante che fa pensare di essere a Istanbul, cede il passo allo stile austro ungarico che sembra catapultarci a Vienna in un solo passo. Le lapidi commemorative dei civili morti in guerra, colpiti dalle granate mentre erano al mercato o attraversando la strada, portano nomi di ogni etnia: serba, bosniaca, croata.

La piccola cittadina di Mostar, attraversata dal fiume Narenta, vede su una sponda la popolazione cattolica e sull’altra quella musulmana. Il ponte che unisce questi «mondi» è il simbolo della guerra che ha insanguinato la Bosnia. La sua distruzione, oltre che strategica, fu un atto altamente simbolico che richiama ciò che la guerra è: separazione, divisione, impossibilità di incontro, esclusione del diverso, mancanza di contatto… distanze incolmabili.

Ora che sono tornata, ripercorro i giorni trascorsi insieme su quel pulmino, in viaggio da una città all’altra per incontrare chi dedica la vita al tentativo di ridurre le distanze e di tenere acceso il lucignolo fumigante dell’integrazione e mi chiedo: da dove nasce la pace? Come si costruisce la pace? Certamente servono la progettualità, l’inventiva, lo sguardo lungimirante; ma la pietra angolare sono le relazioni, i rapporti umani. Può esserci pace solo dove l’altro non mi fa più paura, in una relazione in cui non ci si sente giudicati, dove anzi si è riconosciuti, accolti e apprezzati, dove si possa essere se stessi senza mostrarsi diversi, dove ci si possa raccontare in libertà.

Questo ho visto in quel ponte di Mostar, ricostruito per unire di nuovo le due sponde della cittadina, nei volti dei ragazzi del centro giovanile di Sarajevo che si dedicano al dialogo interreligioso, nel racconto di chi si è immerso nell’inferno dei campi profughi di Bihac, nella scelta di Daniele di lasciare l’Italia per rimanere a vivere in Bosnia dopo l’anno di servizio civile 15 anni fa, nelle parole di Dayana che pur parlandoci di una «pace gelida» a cui si è arrivati non si rassegna e continua a lavorare per una pace vera. E questo ho visto nello stare insieme su un pulmino, tra risate e condivisioni, nove persone con storie e provenienze diverse, accomunate dal desiderio di allargare i loro orizzonti e lasciarsi toccare dalla storia. E dalle storie di uomini e donne che non smettono di sognare.

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