Non è il «cosa» ma il «come»

Sono convinta che avere a che fare con i giovani sia anzitutto un dono, perché costringe a non essere persone «costruite», ma semplici e senza maschere. I ragazzi hanno fiuto per riconoscere chi si avvicina a loro nella verità, anche nella verità della propria imperfezione, e chi invece lo fa mettendo al centro se stesso e il suo bisogno di riconoscimento o di primeggiare; attitudine  che purtroppo si porta appresso tanta finzione. Nella mia piccola esperienza, soprattutto negli oratori, relazionarmi con i giovani ha contribuito a smascherare le mie ambiguità, proprio perché se non sei autentica, loro ti stanno alla larga! Non chiedono la perfezione, non pretendono l’assenza di difetti. Chiedono semplicemente di riconciliarti con la tua fragilità e mostrare loro che è possibile vivere senza fare la guerra con essa

Il dono allora si fa reciproco, perché i ragazzi, grazie alle loro salutari provocazioni, possono vedere adulti capaci di essere se stessi fino in fondo e pronti a disobbedire ai modelli di «maschio alfa»  o «super donna», tanto in voga oggi. E possono crescere nella consapevolezza che ciascuno è prezioso e degno di stima, per quello che già è e non per quello che dovrebbe essere. Una presenza adulta che non ha paura di mostrarsi anche nella sua debolezza, può essere un segno importante che dice loro che per essere amati non hanno bisogno di essere diversi, di essere «di più».

I giovani poi, non accontentandosi di risposte preconfezionate, ti aiutano ad andare in profondità per cercare la radice delle tue convinzioni, della tua fede, della tua visione della vita. Solo quando ti immetti su questo cammino può iniziare un dialogo vero con loro, una ricerca condivisa di senso e di significato, che si costruisce assieme, non che piove dall’alto, già pronto. E anche qui il dono diventa vicendevole, perché la gioventù ha bisogno di vedere davanti a sé persone capaci di interrogarsi e farsi domande, più che offrire risposte studiate, magari corrette nel contenuto ma poco vissute.

Paolo VI diceva che i giovani hanno bisogno di testimoni più che di maestri. Cosa significa per la Vita Religiosa e per noi FdO oggi  questa espressione? Come darle carne?

Nel passato, il semplice fatto di essere persone consacrate poteva dare una certa autorevolezza nella società, era  uno status riconosciuto. Oggi, purtroppo o per fortuna (direi la seconda!), non è più così. C’è una visione di Chiesa che sta cambiando, assume sempre più centralità l’importanza della chiesa-popolo di Dio e meno l’idea della chiesa-gerarchia. Espressioni come «sinodalità” e «spiritualità di comunione» prendono sempre più piede e ci indicano il cammino da percorrere.

È importante allora imparare a giocarsi sul piano della condivisione, ognuno con la specificità della sua vocazione, ma alla sequela dello stesso Maestro. Questo può significare camminare con i giovani senza avere ruoli particolari o di leadership nei loro confronti derivanti dalla propria consacrazione. Ci è chiesto di stare al fianco l’uno dell’altro, illuminandosi a vicenda il sentiero della sequela, ciascuno con la luce che viene dalla propria vocazione.

Forse dobbiamo dare meno  importanza alle strutture e alle opere per la gioventù e maggior tempo allo stare con loro, in un clima di conoscenza reciproca, di «umanità condivisa», senza timore di mostrare il nostro lato umano.

Ricordo che, ancora ragazza, una delle cose che più mi impressionò quando ebbi l’occasione di conoscere più da vicino il mondo delle suore, fu il rendermi conto che erano «persone normali», scoprire che sotto il velo o dietro l’abito religioso non c’erano dei marziani venuti da un altro mondo o angeli disincarnati, ma donne in carne e ossa, con tutto ciò che questo comporta!

Credo, allora, alla necessità di un ripensamento che va ben al di là del cosa fare con i giovani, che raggiunga piuttosto il come essere. Ci è chiesto molto di più di una ristrutturazione o riqualificazione delle opere. Un ripensamento dello stile evangelico che vogliamo vivere e condividere, della teologia della vita consacrata e  dell’ecclesiologia. Ciò richiede tempo, passione, disponibilità a lasciarsi aiutare e a mettersi in discussione. Non perché bisogna buttare via ciò che si è fatto fino ad ora, ma per verificare se le risposte che stiamo dando corrispondono davvero alle domande che esplicitamente o implicitamente i giovani ci pongono nel presente. Ed è un cammino che non si può fare da sole.

Sr Federica

Rispondi

  1. Il Grande Paolo VI aveva capito sulla sua pelle di prete, assistente della FUCI, quello che don Vincenzo aveva intuito molti anni prima: accompagnare i giovani senza offrire loro strutture e/o proposte preconfezionate ma dando forma a cammini ispirati dallo Spirito, spesso suscitati mediante “sogni” a lungo termine.
    Nel libro scritto da suor Rita Bonfrate, nelle ultime pagine, si trova il segreto di don Vincenzo e degli educatori appassionati: “oggi come allora si tratta di coniugare la carità con la fantasia”.
    Buon cammino care amiche FdO, riscoprite la gioia di sognare in grande!!!

  2. Hermanita esta buenl el mensaje pero cuando regresa

  3. El primer escenario del “Hacer” en la obra de Nuestro Señor Jesús, es el Corazón. Buen Camino…