Verso l’istituzionalizzazione

Nell’incarico dato a Ledovina Scaglioni nel 1901, quello cioè di «superiora», c’era non solo l’affidamento delle suore, ma anche il compito di affiancarsi a me per favorire la solidificazione del carisma e la chiarificazione della missione apostolica e spirituale dell’Istituto. Nei contatti frequenti con le suore, Ledovina mise in atto tutta la forza persuasiva del suo carattere e delle sue convinzioni, insieme alla tenacia di chi sa che deve perseguire un obiettivo di cui deve rispondere a Dio e a me che l’avevo coinvolta. Poteva contare sulla mia autorevolezza e sulla mia esperienza.

Dopo quasi trent’anni dagli inizi, l’Istituto tra il 1911 e il 1915 si trovò a vivere un momento cruciale in questo senso. Il moltiplicarsi delle case e le diverse richieste dei parroci stavano creando dispersione e frammentarietà, per cui la fondazione aveva bisogno di chiarezza nel carisma.

L’aumento delle suore, l’avvicendarsi delle superiore locali avevano introdotto quasi inconsapevolmente diverse modalità di intendere l’autorità, la vita comunitaria, l’appartenenza all’Istituto, la disciplina religiosa. Soprattutto era la spiritualità ad essere debole perché, per diversi motivi non era stata approfondita, non da ultimo a causa della totale dipendenza dai parroci, e per una interpretazione troppo stretta del «vivere solo della vita della parrocchia».

Alcune suore mi confidavano che la loro vita non sembrava molto diversa da quella che conducevano i semplici cristiani, lamentando così una vita spirituale debole. In quegli anni, inoltre avevo dovuto affrontare, insieme a Ledovina, degli abbandoni dolorosi per mancanza di amore all’Istituto. C’erano stati casi di divisione a motivo delle idee personali nello svolgimento delle opere apostoliche. A questo si aggiungeva il fatto che non c’era ancora un riconoscimento ufficiale da Roma.

Questa congiuntura di problematiche accelerò il progetto di «essere innestati nel grande albero della Chiesa» e impose la scelta se le suore volevano rimanere una pia associazione o se «divenire un vero istituto con voti e con una carisma specifico originale». Io seguivo questi eventi non da estraneo ma da esterno, cioè senza determinare in alcun modo le scelte delle suore, ma ovviamente cercando di motivarle e di orientarle al meglio.

La vitalità dell’Istituto non doveva consistere nel numero delle case, né dei membri, meno ancora nella novità apostolica, quelle c’erano già. La chiave di volta doveva essere nella spiritualità oblativa connaturale alla vocazione e missione dell’Istituto, da alimentare attingendo alla spiritualità del Sacro Cuore, caldeggiata dal papato e diffusa a livello ecclesiale in quegli anni. Ledovina in questo fu una vera madre spirituale perché incrementò  la spiritualità oblativa attraverso alcune pratiche che cercò di introdurre e di diffondere tra le suore, principalmente l’Atto di Oblazione. Trovò accoglienza e consenso, ma anche una dura opposizione da parte di alcune che non si risparmiarono, in mia presenza, di dire che questo che si stava introducendo non aveva nulla a che fare con la tradizione dell’Istituto. Fu provvidenziale per me questo intervento perché mi diede l’opportunità di affermare che nulla di nuovo si stava introducendo rispetto all’idea iniziale, che rimaneva sostanzialmente la stessa, ma adesso si stava comprendendo meglio e concretizzando in  norme pratiche sia per la vita spirituale  che nelle opere di apostolato.

Fu un nodo non semplice da sciogliere, ma la costanza di Ledovina, accompagnata dalle mie parole chiarificatrici, aprì una strada tra le suore e nelle comunità. Assistetti come a un risveglio spirituale e apostolico, sembrava di iniziare una nuova tappa, quella fondamentale.

Adesso occorreva anche compiere i passi necessari per presentarsi alla Santa Sede.

 

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