Tirare i remi in barca?

Le nostre comunità religiose oggi soffrono di poca visibilità, di insignificanza sociale e a volte anche ecclesiale, escluse quelle che ancora offrono dei servizi sul territorio, ma anche in questi casi la presenza di operatori laici, pur senza cattiva volontà, mettono in ombra l’operato o la presenza delle religiose.

La fluidità dei contesti umani e sociali attuali produce, a sua volta, anonimato, indifferenza e anche individualismo. La persona in queste condizioni è spersonalizzata, diventa un numero. La domanda ricorrente è: «Quanti siete?», «Quanti sono venuti, hanno partecipato, erano presenti…???». Tutti diventiamo un accessorio e cresce la disattenzione reciproca.

La vita consacrata, però, non può cedere alla tentazione di «tirare i remi in barca». La sua vocazione e missione nella Chiesa è di essere lievito, che mescolato alla «massa» agisce per sua natura.

Si tratta di praticare un umanesimo cristiano fatto di virtù minori come quella di rendere visibile l’accoglienza, di dare alla persona la percezione di essere persona, di restituire alle relazioni la dimensione di umanità con il saluto, la cordialità, l’interessamento e il coinvolgimento. Non è una attività, una iniziativa, ma è uno stile.

È un processo già avviato e là dove stanno diffondendosi l’apertura, lo scambio, la condivisione e l’interessamento nasce la familiarità e la reciprocità, nasce il senso di appartenenza. I pastori si stanno affannando per dare un volto nuovo alle comunità cristiane, la vita consacrata potrebbe aver già individuato la traccia da percorrere.

Qualcuno continuerà ad aspettarsi dei servizi qualificati dalle consacrate, a quantificare e misurare le risorse umane e spirituali della vita consacrata, ma noi abbiamo un mandato preciso del nostro Fondatore, «essere vere religiose nel cuore», e la sovrabbondanza del cuore si riversa sugli altri.

Rispondi