Sorella mia!

Chiunque ha o abbia avuto modo nella sua esperienza di trascorrere del tempo con gruppi di adolescenti e giovani, avrà certamente notato che quando tra loro i rapporti sono particolarmente forti e profondi, è facile sentirli nel loro «slang» chiamarsi «fratello», «fra», o «frate’», a seconda delle latitudini e longitudini. Amicizia e fraternità, pur essendo differenti, si intrecciano. I ragazzi sembrano volersi dire: «Ti sento così amico che ti considero importante come un fratello. La nostra relazione è così stretta che non esito a chiamarti fratello. Ti sento sangue del mio sangue. La tua persona mi sta così tanto a cuore da avere la stessa rilevanza di quella di un fratello».

E guarda caso, nella vita religiosa ci chiamiamo tra noi e ci facciamo chiamare dagli altri nello stesso modo: fratelli e sorelle, frati e suore, proprio a sottolineare l’importanza fondamentale che ricopre la vita fraterna in comunità, oltre al richiamo che siamo tutti figli e figlie dello stesso Padre.

Nello stravolgimento dovuto all’arrivo del coronavirus, anche le nostre comunità religiose si sono ritrovate a vivere l’inattività e lo stop forzato alle opere apostoliche. Ma questo tempo è un’occasione preziosa per riscoprire e rivalutare il nostro vivere insieme, il nostro essere sorelle, il nostro appartenerci reciprocamente. O, come è scritto nel documento Per vino nuovo otri nuovi, è un momento opportuno per fare nostro «il pressante invito di Papa Francesco a tutte le comunità del mondo per  una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate e come vi accompagnate» (N. 24).

Tertulliano, già nel secondo secolo notava: «Guarda questi cristiani come si amano l’un l’altro». Il segno distintivo del nostro essere discepoli del Signore è proprio questo. Il comandamento che Gesù ci ha lasciato non è altro che amarci come Lui ci ha amato, a cominciare da quelle “donne” che non abbiamo scelto come sorelle ma con le quali condividiamo le nostre giornate e che ci sono state donate e affidate.

Se per le famiglie la quarantena è una sfida per re-imparare a vivere più tempo insieme ai propri cari, allo stesso modo e di più lo è per noi religiose. Forse, soprattutto nelle comunità di intensa attività, non eravamo  più abituate a condividere assieme tempi lunghi e dilatati. Lo stesso documento non indugia nel dire che «è impressione diffusa che, non di rado, manchi la base evangelica della fraternità. Si dà maggiore importanza all’istituzione che alle persone che la compongono» (n. 24). La quarantena terminerà prima o poi, ma la vita in comune proseguirà e starà a noi fare in modo che sia autenticamente fraterna perché «Da una vita comunitaria livellata, che non lascia spazio all’originalità, alla responsabilità e a relazioni fraterne cordiali, deriva una scarsa condivisione nella vita reale. Di fatto è la fraternità il luogo di eminente formazione continua» (N. 26).

Il Concilio Vaticano II, nel Perfectae Caritatis, evidenziava già come la comunità religiosa «ha come impegno irrinunciabile e come missione di essere una cellula di intensa comunione fraterna che sia segno e stimolo per tutti i battezzati». Saremo riconosciuti come seguaci di Cristo non dal vestito, non dal tipo di lavoro che svolgiamo o dalla quantità di preghiere che diciamo, ma da come ci amiamo tra di noi, o, come dice l’art. 49 delle nostre Costituzioni se «connotiamo la nostra vita fraterna con l’accoglienza reciproca, l’aiuto vicendevole, il tratto delicato, la compassione verso la fragilità dell’altra, il riconoscimento dei suoi doni e la disponibilità al perdono».

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