Di grande ingegno… secondo lo Spirito
«Avrebbe potuto farsi una posizione, per il suo ingegno, come altri familiari…», le sue scelte, però, presero un orientamento diverso rispetto la professione di avvocato o di professore pur socialmente utili, ma sicuramente lontane dalla prossimità ai poveri che lui coltivava e perseguiva, in un’epoca in cui essere poveri era una condizione di normalità.
Alla sua famiglia non mancavano le possibilità economiche per sostenere qualcuno dei figli negli studi universitari, e c’era anche un ambiente familiare abbastanza elevato culturalmente, elementi che, uniti alle doti intellettive dei figli, costituivano un mix favorevole per alcune professioni come poi si è verificato.
Vincenzo non fu, però, il «brutto anatroccolo» della famiglia Grossi, cioè il figlio semplice ed umile, e per questo senza carriera e senza titoli né accademici, né ecclesiastici.
Chissà se come dote innata o abilità coltivata, aveva però la capacità di dissimulare.
Dissimulava con la trascuratezza dell’aspetto l’acutezza di mente, con la semplicità del linguaggio uno spessore di contenuto, con la rudezza del tratto la nobiltà di sentimenti, con una umiltà eccessiva un’intraprendenza innovativa, con la familiarità di padre l’autorevolezza della guida.
L’ammissione al Seminario richiedeva un corso di studi pari al ginnasio e al liceo al quale Vincenzo si preparò privatamente e che superò senza ostacoli, alternando lo studio al lavoro.
I registri scolastici del Seminario dal 1866 fino all’ordinazione, corrispondenti agli anni degli studi teologici, nella loro essenzialità, ma anche verità, descrivono il seminarista Grossi attraverso un linguaggio tendente al ridondante. La valutazione globale lo definisce diligentissimo nell’applicazione e nell’impegno. E nei dettagli delle singole materie si parla di «eminenza» o «quasi eminenza», cioè il massimo o quasi.
A completare un quadro di eccellenze si trova un «lodevolissimo» per la condotta, cioè esemplare.
Un alunno perfetto, un seminarista ideale. Ed erano tempi difficili e segnati da conflitti per il corpo insegnanti del seminario!
Se il Vescovo trovò tra il clero parecchi preti ignoranti o poco istruiti, Vincenzo costituiva una eccezione; non mosse mai un dito e nemmeno proferì parola, e men che meno sgomitò, per far valere le sue capacità intellettive non ordinarie. Dissimulò, come era nel suo stile.
Sacerdote maturo, nelle riunioni zonali del clero le sue valutazioni erano ricercate ed apprezzate per il fondamento scritturistico, teologico e anche pastorale. La sua canonica era frequentata da ragazzini chiassosi ed esuberanti, da giovani per affinare le loro capacità gestionali, ma non mancarono anche sacerdoti spesso nei primi anni del ministero, a volte anche maturi e persino il pastore protestante: nelle conversazioni con don Vincenzo trovavano argomentazioni per le loro riflessioni personali e pastorali.
Perfino nella predicazione dialogata durante le missioni popolari, tra i due ruoli sceglieva per sé quello dell’ignorante, non perché lo sentiva corrispondente alla sua preparazione quanto invece perché gli consentiva di entrare meglio nel pensiero e nell’animo dei fedeli che in questo modo si sentivano interpretati e non giudicati nelle loro debolezze.
A coronamento di questa scelta ci fu la decisione di farsi chiamare «direttore» anziché «fondatore». Perché diceva «È Dio il Fondatore, l’iniziatore di tutto!».
Non per fuggire i riconoscimenti, ma per riconoscere a Dio la paternità di tutto, anche delle sue doti di mente.
Bello!