La storia la fanno i fiori

Vladimir Putin e Vlodimir Zelensky, Margaret Thatcher e Angela Merkel … ma anche Luciano Pavarotti e Maria Callas, Sophia Loren e Tom Cruise. E ancora Diego Armando Maradona e Michael Schumacher, Freeda Kalo e Rosa Parks, Giovanni Paolo II, papa Francesco, senza dimenticare Samanta Cristoforetti, Madre Teresa di Calcutta e Rita Levi Montalcini. Potremmo andare avanti per molte pagine scrivendo nomi di persone celebri, conosciute da tutti, anche senza essere particolarmente esperti o acculturati. Persone che, nel bene o nel male, stanno facendo o hanno «fatto la storia» della politica, dell’arte, della scienza, dello sport e di tutti gli ambiti che fanno parte dell’esperienza umana.

«Fare la storia» è un’espressione che associamo quasi automaticamente alla popolarità. Il vocabolario stesso dice così: «acquistare grande fama ed essere annoverati fra i personaggi il cui nome viene tramandato nei secoli futuri, restare nella memoria dell’umanità, essere ricordato ai posteri per aver compiuto grandi imprese. Diventare memorabile per importanza o eccezionalità».

È una frase usata anche da papa Francesco in Fratelli Tutti (116) e scelta dall’Ufficio Nazionale per la pastorale delle Vocazioni, non certo come esortazione al successo, ma tema della 59° giornata mondiale di preghiera per le vocazioni.

La domanda sorge spontanea: fa la storia solo una piccola parte di uomini e donne che per qualche motivo giungono alla memorabilità?

Un proverbio africano dice che «se tante piccole persone, in tanti piccoli posti, fanno tante piccole cose, può cambiare la faccia di tutta la terra», a sottolineare che in realtà la storia del mondo non è in mano solo ai pochi eletti che finiscono sotto i riflettori o sulle pagine di un giornale.

La filosofa Maria Zambrano affermava che «siamo tutti nati a metà», siamo esseri incompiuti che non hanno mai finito di nascere; e Martin Buber scrisse che «nel mondo futuro non mi si chiederà “perché non sei stato Mosè”, bensì “perché non sei stato te stesso”».

La storia non si fa «diventando qualcuno», ma «diventando sé stessi», scoprendo che la vita ci è data per partorirci del tutto, per far emergere la parte di noi che ancora è nascosta. Si fa combattendo l’ipocrisia che, come di nuovo spiega il vocabolario, è l’insana capacità di imitare un personaggio. L’ipocrita è l’aborto di sé stesso, è colui che per «essere qualcuno» finge e recita la parte di un altro, ma non verrà mai pienamente alla luce. Per essere quello che siamo è necessaria una continua «uscita» dal bozzolo in cui ci rinchiudiamo per sentirci sicuri e protetti ma al caro prezzo di ritrovarci incompiuti e finti.

Ecco allora chi fa la storia: non necessariamente coloro che in futuro avranno i loro nomi scritti su qualche libro, ma coloro che provano a essere sé stessi fino in fondo, decentrandosi, riversando il loro amore sugli altri e non sulla maschera di sé, spendendosi per il bene comune, non importa se sotto i riflettori o nell’oscurità. 

La storia la fa chi non ha bisogno del pubblico per fare un passo verso il bene, chi non attende un giorno migliore per donarsi, ma al contrario, si dona oggi. La fanno quelli che vivono come i fiori, che, come cantava Jovanotti «sbocciano e danno tutto quel che hanno in libertà, donano, non si interessano di ricompense e tutto quello che verrà».

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