Da Saulo a Paolo. Da persecutore ad apostolo (2)

La crisi e il crollo delle certezze

La goccia che fece traboccare il vaso e che mi mise a soqquadro fu l’incontro con Stefano, uno di loro, «un uomo di buona reputazione, pieno di Spirito e di sapienza, al quale era stato affidato assieme ad altri sei l’incarico di servire alle mense delle vedove» (At 6, 3). Io l’ho visto mentre si faceva carico di queste donne, ho visto la sua attenzione e delicatezza nel prendersi cura di loro, la sua dedizione senza sconti, la sua consegna totale. Guardando i suoi gesti e i suoi sorrisi – ovviamente da lontano, senza farmi vedere – intuivo «che i deboli si devono soccorrere lavorando così» (At 20, 35). Successivamente mi insegnarono alcune parole di Gesù, che disse: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (ibid). Quest’uomo era davvero beato, lo si vedeva bene. Era pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo. Ma in quel momento a me faceva solo una gran rabbia. E così, quando «alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilìcia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava» (At 6,9-10), il mio livore raggiunse il culmine. La sua mitezza alimentava la mia ostilità, la sua gratuità accendeva la mia gelosia, il suo sguardo pulito accecava i miei occhi. Seppi che «istigarono alcuni perché dicessero “Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio”» (At 6, 11). Mi feci complice di questo imbroglio e godevo nel vedere che «sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio» (At 6,12). Volevo metterlo a tacere, anche a costo di mentire e di uccidere. La sua presenza mi era insopportabile, mi appariva come un fanatico, un illuso che trascinava altri nell’illusione. Senza accorgermi che in realtà il fanatico e l’illuso ero io e che la mia violenza era uguale a quella dei miei padri nella fede che uccidevano i profeti. Pretendevo di difendere i diritti di Dio a scapito dei diritti degli uomini. Quando presentarono alcuni falsi testimoni che lo accusarono ingiustamente, li sostenni, convinto di difendere la vera dottrina e di osservare la Legge. Ritenevo pericoloso lui e la setta a cui apparteneva e volevo creare il vuoto intorno a loro. Ero parte integrante della società civile e religiosa che mal sopporta chi non si allinea all’ordine dettato dalle regole e che presenta una resistenza cronica alla voce della verità.

Il sommo sacerdote gli diede la parola. Ascoltando il suo lungo discorso di difesa mi sentivo ribollire il sangue, forse perché in fondo sapevo che le sue parole erano urticanti proprio perché vere. Anche quelli accanto a me «erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano» (At 7, 54). Perseverava nel dire che la generazione che ha ammazzato Gesù, la nostra, non ha fatto diversamente da tutte le generazioni precedenti che non riuscivano ad ascoltare uno che parlasse in nome di Dio senza farlo fuori. Sperimentai sulla mia pelle che la reazione di chi ascolta una verità scomoda è l’aggressività, perché è più facile aggredire che ascoltare parole che mettono in crisi e che offuscano la bella facciata dietro cui ci si nasconde. Tutto quello che stava dicendo Stefano era vero, provato dalla storia del nostro popolo, ma dargli ragione avrebbe significato far crollare tutto il nostro impianto accusatorio. Rimanevo stupito perché il suo discorso era duro, non disponibile a compromessi, ma nel suo tono di voce non c’era condanna né giudizio. Anzi, il suo sguardo era mite, sembrava capire il nostro sconcerto e la nostra collera. Ma nessuno dei presenti, me compreso, voleva più ascoltarlo. Era troppo fastidioso. «Gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo» (At 7, 57). Io non riuscii a prendere in mano nemmeno un sassolino, ma quasi senza rendermene conto incitavo con tutte le mie forze chi gli lanciava pietre addosso. «Uccidetelo! Uccidetelo!», gridavo, «Forza, colpitelo!». Qualche anno prima un’altra folla inferocita, davanti al governatore Pilato, gridava la stessa cosa: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». E come Gesù morì innocente, dicendo «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», così Stefano «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: «Signore, non imputare loro questo peccato». Detto questo, morì» (At 7, 59). 

La nostra sete mortifera era saziata, potevamo finalmente asciugarci la bava alla bocca di cani rabbiosi e ritenerci soddisfatti. Ma non era così. Non mi sentivo per niente bene. Il cadavere era a pochi passi da me, con il volto sereno di chi muore consapevole di non cadere nel nulla, ma di andare incontro a qualcuno da cui si è sentito amato e accolto in precedenza. Al vederlo così il mio tarlo interiore divenne un leone ruggente. Come ha fatto a non odiarci, a non maledirci nemmeno mentre lo stavamo ammazzando, a morire perdonando? Non ebbi nemmeno il tempo di rendermi conto di cosa era successo, che tutti quelli che erano lì «deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo, che approvava la sua uccisione» (At 7, 58 – 8, 1). Sì, proprio davanti a me. Ero io quel giovane accanito che col suo fanatismo era riuscito a convincere altri a perseguitare i seguaci di quel sedicente messia. Cercavo di trovar pace convincendomi che in fondo non era stato commesso un omicidio, ma un «malicidio», un’estirpazione del male contro Dio. Quei mantelli deposti ai miei piedi mi convincevano che quello che era avvenuto era un’azione non solo legittima, ma doverosa. L’uccisione di Stefano era cosa buona e giusta, come lo era stata prima quella di Gesù. In realtà, ero dilaniato, combattuto, diviso dentro. Non avevo ancora compreso che la fine di Stefano coincideva con l’inizio di un nuovo modo di vivere per me, che con la consegna della sua vita era stato gettato un seme che avrebbe portato frutto a suo tempo. Sembrava la sua fine, invece era la fine di me, Saulo, «che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede» (1 Tim 1,13).

Ovviamente tutto questo l’ho realizzato molto tempo dopo. In quel momento invece ero preso dalla mia solita furia cieca. Non avevo la minima intenzione di cedere il passo e di mettermi ad ascoltare quegli eretici. O forse farei meglio a dire che non volevo saperne di ascoltare la mia inquietudine interiore. Facevo come gli struzzi, mettevo la testa sotto la sabbia e mi incaponivo nel voler «distruggere la Chiesa: entravo nelle case, prendevo uomini e donne e li facevo mettere in carcere» (At 8,3). Non mi accorgevo che il problema non erano quei poveri malcapitati tra le mie grinfie, ma l’impostazione della mia vita e della mia fede che faceva acqua da tutte le parti. Ero vittima del mio orgoglio di uomo che pensa di salvarsi con le proprie azioni, con la propria giustizia derivante dalla Legge. Non avevo ancora sperimentato che la salvezza non è merito ma grazia, non è conquista ma puro dono.

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