Comunità o vita fraterna in comunità? (Vita Consecrata 3)

In questo lungo tempo di prova a causa della pandemia l’espressione Vita fraterna in comunità è quanto mai attuale anche se in prima battuta ci riporta al documento della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica risalente al 1994. La vita religiosa, o almeno le forme che hanno un secolo di vita, poco più poco meno, nel mondo occidentale è palesemente in una fase discendente. È un processo fisiologico e, nella logica delle evoluzioni, non potrà che essere irreversibile. Ovviamente si parla della forma, non della vita, perché la vita è il respiro di Dio e questo non viene mai meno. Come continuare a rimanere nel respiro di Dio e poter ridare ossigeno alla vita religiosa?

Uno degli aspetti che ci stanno scivolando tra le dita delle mani come sabbia è la comunità, o almeno quella realtà di comunità che conosciamo e che costituisce la struttura portante della vita religiosa fin qui, oggi. Casa, orari, compiti, ruoli, servizi, incontri, preghiera, tutti rigorosamente regolamentati dal Codice, dalle Costituzioni, dall’obbedienza e dalle consuetudini. Quante religiose hanno tessuto su questo «telaio» relazioni importanti, iniziative di bene, e la loro santità! Tutto questo, però, non cancella l’evidente e attuale fragilità della vita comunitaria. La comunità come entità istituzionale, la collaborazione funzionale al suo interno, la sua stabilità e organizzazione, la  stessa condivisione del progetto apostolico,  inavvertitamente ma fatalmente, hanno fatto passare in secondo piano la «vita fraterna».  

«Vita fraterna in comunità!», dice il documento della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. In altre parole, la comunità è l’habitat naturale per la vita fraterna. Ma una comunità senza vita fraterna è una collettività, e una vita fraterna senza comunità è un club: concetti che papa Francesco ha più volte detto e ripreso.

La nostra vocazione è alla vita fraterna in comunità dove le relazioni recuperano il loro posto, il centro, e sono costruite sul paradigma relazionale della famiglia dove ci si prende cura gli uni degli altri e ci si incoraggia mutuamente (EG 99). Vita fraterna in comunità dove la sinodalità è la dinamica principale della fraternità, prima di quella della autorità, visto che anche gli stessi appellativi, superiore e sudditi, non rispondono più al contesto antropologico, sociologico, teologico attuali e pertanto, anche se continuiamo ad usarli, suonano vuoti. (G.Dalpiaz)

Oggi la comunione tra persone adulte e mature, motivate da una consacrazione a Dio e al Vangelo, va coniugata con uguaglianza, libertà, gratuità. (L. Bruni) Niente di nuovo o di non ortodosso perché Gesù stesso ha detto: «Il primo sia l’ultimo, il servo di tutti».

Vivere in comunità nella prospettiva di  Giovanni Berkmans, cioè di «maxima poenitentia», oltre ad essere una specie di suicidio a cui nessuno si sente chiamato, potrebbe nella migliore delle ipotesi innescare nelle persone  una forma di estraneità alle relazioni, alla appartenenza, fino a giungere ad una sorta di «separati in casa».

Tutte noi abbiamo scelto la vita religiosa perché attratte dal suo apostolato. Ora che le attività apostoliche sono diventate prevalentemente un servizio non ci identificano più come consacrate. È venuto il tempo, in cui l’unico apostolato è come quello della prima comunità di Gerusalemme, della quale veniva detto: «Guardate come si amano!». Questo è l’UNICO modo di essere cristiani, è  l’UNICO modo di evangelizzare, è l’UNICO modo di «aiutare» Dio a convertire i cuori, suggerisce papa Francesco.

Si tratta di entrare nella logica del morire per nascere, la legge del chicco di grano. Nella vita religiosa quello che deve morire è ciò che non le giova più evangelicamente, quello che piano piano le toglie il respiro spirituale e che le produce affanno nel cammino di fede.

Nel film «Mission» il nobile Rodrigo Mendoza, risalendo le cascate di Iguaçu per giungere alla missione dei gesuiti, è caparbiamente restio a disfarsi del suo bagaglio militare e cavalleresco anche se lo frena, lo appesantisce e lo condanna a sforzi enormi. Fino a quando decide di abbandonare totalmente la sua armatura alla forza travolgente delle acque. Solo allora diventa, non solo fisicamente ma anche spiritualmente, una persona libera.

È una scena che, al di là del contesto narrativo e filmico, può interpretare e illuminare  il nostro attuale cammino faticoso.

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