Il coraggio di sognare

«Ora dimmi, Francesco, quando è stata l’ultima volta che hai avuto un obiettivo che si possa definire un sogno?». Mi sembrava un quesito semplice, d’altronde credevo di non aver mai smesso di sognare. Invece la risposta non arrivava. Iniziai a innervosirmi. Andando a ritroso, trovavo solo obiettivi lavorativi che avevano perso le caratteristiche del sogno: desideri razionali, logici, raggiungibili, ma privi di vitalità, come motori ben calibrati senza benzina. Scorrevo gli avvenimenti degli ultimi anni come se guardassi un album fotografico: 2007, 2006, 2005… fino al 2004. «Papà, non ci posso credere, sono passati anni dall’ultimo vero sogno!» (dal libro di Francesco Lorenzi “La strada del sole”, Rizzoli 2014).

Cosa ha a che vedere questa citazione della storia di un ragazzo di oggi, con San Giuseppe, vissuto più di duemila anni fa? Apparentemente nulla, ma andando oltre la superficialità, possiamo trovare un nesso nella parola SOGNO.

Di Giuseppe “sappiamo che era un umile falegname, promesso sposo di Maria; un «uomo giusto», sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22) [Lettera apostolica Patris corde]. È nel sogno che Dio ci parla: “Anche a Giuseppe Dio ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà” [Patris Corde].

Silenziare i sogni è allora sinonimo di mettere a tacere la voce di Dio. I sogni che coltiviamo dentro, nel profondo, sono la misura più realistica della nostra vita e del nostro bisogno di felicità, che Dio stesso sogna per e con noi; se pensiamo ai nostri momenti più infelici, ci accorgiamo che sono i momenti in cui non ci è stato possibile abitare i nostri sogni più autentici.

Perdere la capacità di sognare porta all’indurimento del cuore, a un pragmatismo sterile, a un vivere appiattito, senza orizzonti. La fede stessa, senza lo slancio che viene dal sogno, rischia di trasformarsi in un’abitudine vuota, in una religiosità senz’anima che nulla ha più a che vedere con una relazione e un dialogo d’amore.

Quante volte però guardiamo ai cosiddetti sognatori con aria di sufficienza, considerandoli persone senza i piedi per terra, con la testa fra le nuvole, disincarnate. Poveri ingenui idealisti, pieni di entusiasmo e vuoti di realismo, che non hanno ancora fatto i conti con la spigolosità della vita e che si illudono di poter fare lo slalom tra i problemi quotidiani.

Sono invece i sogni che producono la realtà, perché le offrono una direzione, un obiettivo, un tesoro da scoprire. Il sogno è quella sapienza che permette di interpretare e conoscere  la storia umana e il senso delle cose in modo autentico. È una intelligenza non addormentata, la capacità di leggere dentro di noi e dentro gli avvenimenti e trovare anche nell’inverno più rigido i segni che ci annunciano il passaggio verso la primavera.

Ernest Bloch scrisse che «il nuovo non è mai totalmente nuovo, lo precede sempre un sogno». Giuseppe sognava probabilmente di condividere la sua vita con Maria e anche davanti al «nuovo» ha continuato a coltivarlo e custodirlo: gli imprevisti e gli ostacoli non lo hanno spento. Avrà avuto paura di sbagliare, di perdere per strada le sicurezze che si era creato con tanto sacrificio, ma ha mantenuto vivo nel cuore quello che desiderava realmente, ciò che sentiva più vero e stringente per la sua vita. Ha dato fiducia alla «visione», a quel «qualcosa» che Dio vede e i nostri occhi ancora non vedono… e gli ha creduto!

Oggi siamo in un tempo oscuro, che non ci consente progetti a lungo termine. Ma il sogno non coincide coi progetti preparati a tavolino. Anche in questo periodo storico possiamo imparare da Giuseppe a guardare lontano. O meglio, guardare in profondità, nel nostro cuore, per capire che cosa ne abbiamo fatto dei nostri sogni, che cosa sogniamo veramente, per interrogarci su cosa vede Dio che noi ancora non vediamo.

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