Il segreto dei santi

Nelle serate di inverno, quando la nebbia riusciva a spegnere tutte le voci del paese e gli stessi rintocchi dell’orologio del campanile erano rauchi ed ovattati, la canonica diventava un monastero e lo studio, dove Don Vincenzo si ritirava, una cella. Riassettata la cucina e rinvigorito il fuoco nella vecchia stufa a legna, la perpetua si sedeva e nel tentativo di sferruzzare, complici il tepore e l’ora, si appisolava pesantemente.

Erano le ore che don Vincenzo dedicava alla lettura delle vite dei santi. Conoscere la loro vicenda umana e spirituale era per lui molto edificante, ma non solo. Poiché ne aveva ormai lette parecchie, lo considerava utilissimo perché emergeva ciò che era comune a tutti ossia il fondamento della loro santità.

I santi, in definitiva, avevano fatto poche cose, si diceva, perché la santità dipende meno da ciò che si fa, e più dal modo con cui lo si fa. Addirittura alcuni erano divenuti santi a motivo di una cosa sola,  di un gesto di carità, di un atto di fedeltà, di una confessione, di una comunione, di una azione eroica…

È il motivo per cui viene fatto quel gesto, detta quella parola, presa quella decisione, che ne costituiscono l’anima. Sicuramente, si diceva, se potessi mettere grande amore ad una grande quantità d’azioni, sarebbe tanto meglio, ma aveva sperimentato che il valore delle azioni non dipende dalla loro dimensione o dalla loro durata. Iddio non guarda né alla piccolezza, né alla grandezza delle opere; guarda al motivo dell’azione, alla forza che la muove, all’amore. E i santi mettevano una grande forza nelle loro azioni anche le più piccole. Essi concentravano tutta la loro attenzione nell’intenzione. 

Quante volte don Vincenzo aveva pensato che per essere migliore di quello che era, doveva aumentare il numero delle opere buone, cioè fare delle addizioni, e invece i santi dimostravano il contrario: volendo e dovendo arrivare all’essenziale sceglievano la teoria della sottrazione.

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