Lasciato tutto…

Pubblichiamo una riflessione maturata in una figlia dell’Oratorio dalla lettura meditata di un libro, con l’augurio di poter pubblicare il seguito – come ella stessa si augura! – in un prossimo post. (N.B. Le foto  non si riferiscono alla protagonista dell’articolo).

Sto leggendo un libro, di quelli che si leggono a tappe e non tutto d’un fiato magari in una notte.

È un testo che riflette sulla vita religiosa di oggi e non si perde in analisi teoriche  e scientifiche sulla situazione di transizione, la quale, tra l’altro, ci prende tanto dal di dentro che non ci rendiamo nemmeno conto di come la stiamo di vivendo.

Nelle pagine lette in questi giorni ho trovato la risposta ad un interrogativo che mi sono portata dentro fin dai primi anni della vita religiosa. Se durante il tempo del Noviziato eravamo tutte omologate, perché tutte dedite allo studio dei testi di spiritualità, tutte impegnate a svolgere i servizi domestici della casa o nelle strutture vicine alla casa del noviziato, dopo la prima professione incominciavano i «distinguo». Alcune venivano indirizzate al conseguimento dei titoli necessari per svolgere l’insegnamento, oppure l’accompagnamento e l’animazione giovanile, altre invece, ed era la maggior parte, venivano impegnate da subito nei servizi di cucina, di lavanderia, di guardaroba e in quegli «uffici generali e complementari» indispensabili al funzionamento delle opere. A qualcuna veniva data a volte l’opportunità di dedicarsi una volta la settimana alla catechesi.

Qual era il mio interrogativo?

Ma non avevano scelto questo istituto per dedicarsi alla gioventù? Come si sentono ora che si apre davanti a loro una prospettiva che le porta da tutt’altra parte? Come coniugano le motivazioni iniziali con una realtà dove l’apostolato a favore della gioventù è quello che fanno le altre, alcune? Non possono essere motivate ad accettare ciò solo perché devono obbedire all’autorità!

E non era un fenomeno di una congregazione, ma diffuso e praticato soprattutto nelle congregazioni femminili, tanto che una madre generale parlando delle sue suore riferiva: «Tante vocazioni, tanta manodopera».

Non sono mai arrivata a porre la domanda direttamente alle suore che erano coinvolte in questa impostazione. Un articolo delle Costituzioni, tra l’altro, diceva che in qualsiasi «ufficio la suora fosse occupata» sempre era chiamata a svolgere l’«apostolato di carità» e questa poteva essere una spiegazione.

Non era però invisibile questo costume, tanto che attualmente da più parti si sottolinea che nella vita religiosa femminile sono stati seppelliti tanti talenti, non per farne una colpa, ma per sollecitare oggi una impostazione diversa.

Scrive l’autore: «Pensiamo alle migliaia e migliaia di suore che la loro vita l’hanno semplicemente data…pensiamo a quelle che non sono state e non sono per niente brave a organizzare e portare avanti opere, alle anziane, alle malate. Non sono tutte costoro quelle che, in Gesù, salvano il mondo? Se prendiamo sul serio quanto ci chiede Gesù, cioè di lasciare tutto, forse può essere che proprio loro, i più piccoli, siano anche i più importanti: quelli che semplicemente hanno dato la loro vita e continuano a darla con amore. Quando abbiamo detto di sì alla nostra vocazione, se davvero abbiamo lasciato tutto, allora vuol dire che il senso alla nostra vita in sé e nei riguardi degli altri non può che darlo Gesù e il vangelo».

Non credo sia una riflessione consolatoria per chi non ha targhe al merito o riconoscimenti tra i propri ricordi, né per chi ha dovuto lasciare le attività apostoliche a motivo dell’età; lo considero una verità fondante la scelta della vita religiosa, anche se spesso succede che «si lascia tutto» ma gradualmente e non con la prima professione religiosa. A me è successo così.

Non so, però, se questa modalità graduale di distacco è fisiologica o è un aggiustamento/compromesso.

Continuerò a leggere il libro. Chissà che non trovi una risposta anche in riferimento a ciò!

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