Cuore aperto sul Sinodo (16)

Il secondo passo per accompagnare il cammino di fede suggerito nell’omelia della messa di chiusura del Sinodo pronunciata dal papa è quello del farsi prossimi, sempre sulla scorta di quanto fatto da Gesù nei confronti del cieco Bartimeo.

Smembrando la domanda posta al cieco, Francesco ci fa notare come Gesù non prescinde dalle sue attese, non le dà per scontate, non pensa di conoscere già la risposta. Ancora, l’avvicinarsi di Gesù non è solo parlare, ma un fare concreto, una vicinanza reale e non solo teorica; non procede secondo idee prefissate per chiunque, in modo generico, ma si incarna nella situazione particolare e specifica di quest’uomo.

Alla luce di queste parole, è facile comprendere che per essere accompagnatori nel cammino di fede di un giovane occorre un desiderio di conoscenza personale di chi si ha davanti, un coinvolgimento caldo, la disponibilità a farsi carico di quello che sta attraversando e che ha nel cuore.

Il papa non esita a ribadire che «la fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza».

Vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza! Quando queste parole non sono solo un enunciato, ma vita che scorre nelle nostre vene, allora il farsi prossimi non è più un dovere imposto da chissà quali regole, ma un’esigenza che nasce da dentro, dal cuore, perché… caritas Christi urget nos! L’amore di Cristo ci spinge!

Spiega ancora Francesco che «farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca».

Può capitare che il desiderio di avvicinare e incontrare «quelli che non sono dei nostri» sia solo in vista di attirarli dentro «i nostri giri, i nostri ambienti»; sembrerebbe qualcosa di molto generoso, probabilmente in parte lo è. Ma se guardiamo a Gesù, Lui si avvicina al cieco e a chiunque altro per offrire loro «interessamento disinteressato», ovvero gratuito, senza nessun’altra finalità se non quella del farsi prossimo, stare vicino, sostenere, dare forza. Con il suo agire, Gesù dice che «mi interessi tu, voglio che la tua vita sbocci e non appassisca, voglio stare con te». A volte invece il messaggio che può passare dalle nostre attività e dal nostro darci da fare non è «voglio stare con te», ma «voglio che tu stia con me». Ed è molto diverso, in questo caso cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia eccome! Nel primo caso sono io che esco da me stesso per andare incontro all’altro, nel secondo invece lo voglio portare a me, e l’esodo non sono più io a farlo ma lui.

Il pontefice mette in guardia poi dalla «tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla in questo Vangelo, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani».

Ecco allora il volto degli accompagnatori nella fede: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva. Con le mani sporche.

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