I pasti

La nostra vita quotidiana è fatta di piccole azioni che si ripetono, magari monotone e inconsce. Eppure sono queste che, tessendo la trama dei giorni, danno luce, colore, ombra, gusto o disgusto alla vita stessa. Viverle con consapevolezza è la sfida che ci si pone ogni giorno per far sì che le ombre diano risalto alla luce, le sconfitte siano sprone per un nuovo impegno, la vita stessa la realizzazione del sogno di Dio su ciascun uomo.

Partendo da questa considerazione, ci è sembrato utile chiederci: come don Vincenzo si è rapportato con la monotonia della quotidianità? Pertanto nei prossimi post ci soffermeremo brevemente su quattro elementi del quotidiano di don Vincenzo, riletti, come fatto finora, dall’ottica «teologica». Sono: i pasti, il rapporto con un piccolo… «vizio»: fiutare il tabacco, le penitenze e il digiuno eucaristico.Don Vincenzo fu ritenuto unanimemente dai testimoni  molto temperante riguardo il cibo e le bevande.

«Quanto era gramo il pranzo! Ma mangia sempre così male?», commentò un seminarista che era stato suo commensale. Chi veniva accolto occasionalmente alla sua tavola o i frequentatori più assidui raccontano di un menù ridotto e poco gustoso: un piatto di minestra, un bicchiere di vino e un pezzo di pane. Il resto, quando c’era, era ordinariamente poco curato. Se poi si considera la cena: durava cinque minuti, il tempo necessario per consumare un unico piatto che era costituito da un budino fatto con il mosto e la farina, o una scodella di latte con pane grattugiato.

Don Vincenzo era consapevole della monotonia e della ordinarietà del suo menù, ma questo non lo dissuadeva dal trattenere a pranzo quelli che passavano a trovarlo, anche se ripartivano o col proposito di non accettare più l’invito o con la persuasione che don Vincenzo era un asceta.

Tanta sobrietà poteva avere due matrici: la sua risaputa e cronica delicatezza di stomaco e la poca intraprendenza della domestica, oltre al contesto contadino essenziale e povero nella alimentazione. Una temperanza che sembra più legata a situazioni contingenti che a virtù.

Don Vincenzo, però, è riuscito a farne una virtù, quella della penitenza. La penitenza di trovarsi nel piatto tutti i giorni «la solita minestra», di non condirla con lamentele e rimbrotti verso chi l’aveva preparata, e di rinunciare alla ricerca di compensazioni alimentari fuori pasto e fuori casa.

Eppure Dio non ha mai fatto l’elogio della mensa povera! Anzi l’abbondanza e la bontà dei cibi erano il segno della sua benedizione, della sua volontà a ridare gioia al suo popolo. Il digiuno era considerato espressione sincera del pentimento per i propri peccati.

A don Vincenzo non mancavano le benedizioni del Signore e in quanto ai digiuni non ne aggiungeva a quelli previsti dalla Chiesa! La sobrietà a tavola aveva per lui un significato riparatore, soprattutto nei confronti di tanti suoi confratelli che facevano della buona tavola una attività quotidiana, ma anche di solidarietà con la sobrietà o con la povertà dei suoi parrocchiani: quello che non c’era sulla sua mensa, non era accumulato nella dispensa, ma distribuito a quanti erano nel bisogno più di lui.

Alla poca o nessuna importanza che don Vincenzo dava alla ricercatezza a tavola, si contrapponevano i tempi abbondanti e la cura per la preghiera, lo studio e la sollecitudine per i giovani. Questo cibo non riempiva il suo stomaco, ma colmava di senso la sua vita. Suo cibo era, infatti, la «volontà del Padre»: che non se ne perdesse uno di quanti gli erano stati affidati. Una missione che don Vincenzo svolse non con i piedi sotto il tavolo della cucina, ma inginocchiato sulle panche della chiesa o facendo su e giù per i cortili dell’Oratorio o delle contrade della sua parrocchia.

Per lui la sobrietà era sinonimo di priorità per Dio e per il Regno.

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